La truce ora dei lupi
Primavera 2019. Manduria, la tranquilla provincia italiana.
La cronaca è oggi tristemente nota: Antonio Cosimo Stano, pensionato di sessantasei anni, è deceduto, dopo essere stato ricoverato in ospedale, a seguito di una lenta agonia, causata dalle percosse inflittegli da una banda di locali giovinastri delinquenti che – per quanto successivamente emerso – lo aveva da tempo preso di mira e fatto oggetto delle più impensabili violenze fisiche e psicologiche, invadendo di tanto in tanto, ma sistematicamente, la sua casa, per offenderlo, umiliarlo e malmenarlo anche a colpi di bastone.
Lo scopo dell'accanimento? Non c'era! La violenza contro il pover'uomo serviva … per ammazzare il tempo, la noia in cui versavano le belve fameliche che, nel corso degli anni, se lo sono divorato.
Inutili – come ancor oggi spesso accade - le sue precedenti grida di aiuto, rivolte anche alle Istituzioni, ma soprattutto dirette ad una comunità che sapeva, ma non voleva assumersi responsabilità di denuncia e di contenimento del branco, del quale potevano anche far parte figli di parenti, di amici o di conoscenti; a quella stessa comunità che, dopo il suo decesso, lo ha pianto (speriamo) sentitamente, ma inutilmente.
Le violente scorribande erano strumentalmente preordinate a sottoporre Antonio Cosimo alle peggiori vessazioni, per trarre divertimento e dileggio dalla altrui sofferenza.
Dopo le vessazioni, i tormenti, del fisico e dell'anima, e, dopo di questi, la morte che per tutti noi, gente di fede o meno, resta mistero e che agli occhi di chi sopravvive può anche apparire come liberazione dall'Inferno che alcuni sono costretti a vivere sulla Terra.
Chissà, forse sarà stato così anche per Antonio Cosimo che era solo al mondo e che se n'è andato dopo essere stato abbandonato da tutti e torturato da pochi.
Sì, torturato: proprio la tortura è stata anche uno dei reati contestati dal Pubblico Ministero al branco assetato di sangue.
I suoi aguzzini lo chiamavano "il pazzo"; (anche se pazzo non era), solo perché aveva condotto una vita così semplice da sconfinare nell'indifferenza degli altri: due genitori anziani trapassati prima di lui, un impiego da archivista, la pensione, una piccola casa ereditata dalla sua famiglia d'origine.
E poi, … se anche fosse stato "pazzo"? Sarebbe cambiato qualcosa per lo sgomento che questi fatti hanno provocato e per la conseguente condanna "senza se e senza ma" dei loro autori?
Eppure lo chiamavano "il pazzo": quasi a volersi preventivamente autoassolvere dalla violenza compiuta nei suoi confronti, loro che ai nostri occhi appaiono orfani delle loro famiglie (perché incapaci di educarli e di controllarli), orfani della loro comunità cittadina e delle Istituzioni (perché nessuno li ha fermati prima, anche per il loro bene), orfani della società in cui tutti noi, attualmente, viviamo (perché destinata solo a correre contro il tempo, vocata sempre più all'effimero e formata da consociati attenti a coltivare unicamente il loro orticello).
E' irrilevante, in questo momento, rendere conto dell'esito della vicenda giudiziaria, all'epoca non certamente condotta con "guanti di velluto", ma deve ritenersi doveroso e fondamentale interrogarsi sui nostri tempi e sulla società di cui siamo protagonisti, meditando sulla circostanza che qualcosa sfugge o – ormai – è sfuggito.
Viviamo in una società malata: le eclatanti manifestazioni patologiche di essa, vanno dai giornalieri omicidi di genere, i quali, insieme ad altri episodi di violenza, anche domestica, gemmano per lo più dalla noncuranza e dall'indifferenza che noi possiamo registrare nelle piccole situazioni della vita di tutti i giorni.
E proprio su questo ultimo aspetto deve maggiormente concentrarsi la nostra riflessione!
E' ormai abitudine diffusa, infiorare discorsi di valori trascendentali di alto sentire, quali la libertà, la democrazia, la giustizia, la legalità, il bene comune … ma non ci accorgiamo di dimenticarci dell' "a,b,c" del saper vivere, il quale costituisce la base del rispetto del proprio prossimo e che è indispensabile per comprendere altri, più elevati concetti, rappresentandone il viatico per tendere ad essi e farli propri.
Le famiglie, la scuola e tutti coloro che formano le generazioni ed i Professionisti di domani, devono soprattutto preoccuparsi di mandare per il mondo persone per bene, buone e volonterose, attente al più debole e consapevoli che l'affanno per ricercare ricchezze materiali e situazioni di comodo (… che hanno sempre più un triste ed intrinseco valore economico!), non è e non corrisponderà mai al senso della vita.
Abdicare a questa funzione che inerisce al compito di "educare", nel significato squisitamente latino del termine, vuol dire perdere il controllo del nostro domani e correre i rischi che si traducono inesorabilmente nei già descritti pericoli di oggi.
Si può anche cominciare, come un tempo accadeva, dalle cose più piccole ed apparentemente banali, come preoccuparsi di salutare e di ringraziare, testimoniando altresì di saper ascoltare e di dare risposte, per ciò che ci compete, alle istanze che ci vengono postulate, ripescando un'etica personale, familiare e collettiva fondata sull'umana solidarietà e sul rispetto dei ruoli, dei luoghi e, quindi, delle istituzioni.
Ripensando ancora al fatto di cronaca che ha afflitto la cittadina pugliese cinque anni or sono, nonché a quelli che quotidianamente vengono commessi in maniera del tutto simile, per l'efferatezza con cui sono compiuti, la mente corre agli approfondimenti giuridici, ripetutisi nel tempo ed ancora oggetto, di recente, di appositi studi, sulla compatibilità dei cosiddetti "danni punitivi" – i punitive damages del sistema anglo-americano – con i principi fondamentali del nostro Ordinamento e, quindi, sulla loro eventuale collocazione all'interno di quest'ultimo.
Certo, non si può fare a meno di evidenziare l'insofferenza del nostro sistema giuridico verso una condanna esemplare che si aggiungerebbe al risarcimento ispirato ai tradizionali criteri riparativi, prescindendo, peraltro, da essi, ma si deve anche considerare come lo strumento in oggetto possa dispiegare effetti in ambiti ristrettissimi e particolarissimi, immediatamente riconnessi all'efferatezza dell'azione umana che ha determinato la lesione da riparare.
In questi casi – a detta anche di insigni studiosi ed esperti del settore – il risarcimento del danno, così come postulato all'interno dell'Ordinamento giuridico, potrebbe non essere vissuto come sufficiente in senso sociale e morale: entro tale delimitato perimetro, una condanna-sanzione potrebbe, quindi, convivere con i principi fondamentali già esistenti.
Francamente, non riesco (nonostante tutto) a condividere questa impostazione.
Al di là dei problemi tecnico-giuridici, relativi alla quantificazione della sanzione (che verrebbe liquidata in sede di giudizio), non possono essere sottaciute le possibili derive di un tale sistema, il quale partirebbe con il riconoscere allo Stato un magistero educativo esemplare, con tutte le conseguenze (anche negative) che ne potrebbero derivare, specie in sede politica.
Tuttavia, questo sentire comune che è ormai dilagante e che porta la maggioranza delle persone (a volte anche miti) a voler reprimere, più che dirimere, non deve lasciare indifferenti e deve responsabilizzare tutti noi al fine di ripristinare modalità di controllo "ex ante" delle criticità sociali del nostro tempo, evitando soluzioni "ex post", le quali, da suggestive, potrebbero divenire suggestionanti.
di Giovanni Mazzon